Scatena il Cyborg che è in te con la Fashion Tech di Behnaz Farahi
Mai prima d’ora il confine tra espressione di sé e scienza è stato così labile. Una volta era scontato propendere da un lato o dall’altro: emisfero destro/emisfero sinistro, realista/idealista e così via. Forse però tutto era imperniato su un unico concetto, sempre lo stesso. Può darsi che non esistessero gli strumenti giusti per capire e accettare quell’idea.
Fino ad oggi.
L’esempio perfetto di questa dicotomia in continua evoluzione tra discipline è Behnaz Farahi, designer, architetta, artista, filosofa e innovatrice fashion-tech.
“Spesso mi capita di calarmi in un ruolo inconsueto, tra discipline diverse” – Behnaz Farahi
Chi possiede due Master in Architettura è un architetto, giusto? Farahi sta frequentando un dottorato in Media Arts, perciò non c’è da stupirsi se la sua risposta alla domanda “di che cosa ti occupi?” risulta tanto ambigua quanto lo è l’intersezione dei suoi interessi.
“Spesso mi capita di calarmi in un ruolo inconsueto, tra discipline diverse”, dice Farahi. “Alla fine, mi definisco una designer, una designer interattiva, forse, visto che mi occupo di tecnologia creativa. Trovo molto interessante combinare design e tecnologia interattiva per riuscire a inventare scenari, funzioni o storie nuove per un oggetto”.
Tuttavia, è importante notare che Farahi ha iniziato il suo percorso esclusivamente come architetto. “Ho lavorato quasi otto anni come architetto e non ho mai desiderato lasciare”, afferma.
Poi, però, ha fatto una passeggiata nel parco e, in quel parco, è rimasta ipnotizzata da un gruppo di bambini che giocavano in una fontana interattiva. “I bambini si divertivano da morire”, racconta Farahi.
Mentre li osservava scatenarsi felici in quello spazio, “mi si è accesa una scintilla in testa e ho cominciato a pensare al futuro degli spazi pubblici, al futuro dell’intrattenimento e al futuro del design in generale, che si stava muovendo verso la creazione di esperienze più coinvolgenti”, ricorda Farahi. “È stato allora che ho cominciato a guardare al di fuori del mondo dell’architettura e con più interesse al mondo della tecnologia interattiva”.
Farahi ha sperimentato tecnologie e materiali, quali telecamere a profondità di rilevamento, tessuti elasticizzati, dispositivi Leap Motion e molle in lega con memoria di forme (in particolare, nelle sue installazioni The Living Breathing Wall e Breathing Wall II). È stato solo nel 2015, con Synapse, che ha cominciato a sperimentare la stampa 3D. In questo caso, si trattava di un casco stampato in 3D che rispondeva e si illuminava a seconda dell’attività cerebrale dell’utilizzatore.
L’idea che sta dietro Synapse, come riportato nel sito di Farahi, era quella di “esplorare le potenzialità della stampa 3D multimateriale per produrre una struttura mutaforma attorno al corpo come una seconda pelle”. Questo tema è stato replicato nei progetti successivi: Ruff nel 2015, un dispositivo indossabile stampato in 3D in collaborazione con lo studio Will.i.am; Caress of the Gaze, un dispositivo interattivo indossabile stampato in 3D che risponde agli sguardi degli altri, creato nell’ambito dell’Autodesk Pier 9 Residency Program; Aurora nel 2016, nel quale Farahi è ritornata, in parte, alle proprie radici architettoniche, progettando un “soffitto cinetico interattivo che risponde al movimento corporeo sottostante”.
La Fashion Tech di Farahi è alimentata dall’attrazione per i sistemi naturali. “Nel mio lavoro guardo alla natura come alla fonte principale della mia ispirazione” afferma l’architetta. “Qualsiasi sistema naturale è in grado di rispondere al proprio ambiente in maniera molto attiva, nei confronti di fattori interni ed esterni. Prendiamo, ad esempio, una pianta: le piante rispondono costantemente agli stimoli ambientali, sia interni che esterni. Lo trovo davvero molto intrigante”. Le sue opere più recenti, Bodyscape e Opale, realizzate nel 2017, incarnano questi momenti di fascinazione secondo modalità impressionanti.
Farahi descrive Bodyscape come “un oggetto di moda interattivo stampato in 3D, ispirato al comportamento del corpo umano”, nel quale combina materiali stampati in 3D SLA con giroscopi e luci a LED che si illuminano seguendo il movimento di chi li indossa, esaltando la fluidità del movimento del corpo umano. L’opera, indossata quasi come un poncho o uno stemma, era basata sulle linee di Langer, le linee topologiche di tensione della pelle, scoperte nel 1861 dall’anatomista Karl Langer.
“Stavo cercando quasi di confondere quella relazione tra oggetti umani e inorganici per creare qualcosa di più empatico”, spiega Farahi. “Noi tendiamo a proiettare la vita negli oggetti: ad esempio, attribuiamo un nome alla nostra macchina, per darle un carattere. Allo stesso modo volevo giocare sulla nozione di proiezione della vita negli oggetti. Voglio che il pubblico abbia la sensazione che sono vivi”.
Mentre Bodyscape è incentrato sulla risposta agli stimoli interni (i movimenti naturali del corpo in quanto il “sé”), con Opale l’attenzione si sposta sugli stimoli esterni, “l’altro”. In quello che potrebbe essere considerato un’evoluzione di Caress of the Gaze, il vestito creato per Opale segna il primo totale distacco di Farahi dalla stampa 3D per tuffarsi nei mondi più reali delle tecnologie di fabbricazione. Qui, Farahi compie una serie di esperimenti con soft robotics, fibra ottica e tecnologia di riconoscimento facciale, usando una macchina fotografica che può rilevare le espressioni del volto di uno spettatore. Questa combinazione consente alle fibre di Opale, ispirate alla pelliccia di un animale, di rispondere di conseguenza.
“Dopo Bodyscape, volevo veramente spingermi ai confini della materia con altri mezzi”, dice Farahi. “Ero davvero affascinata dalle ricerche sulla soft robotics e dall’uso del silicone.” Per Opale, si è lasciata prendere dalla curiosità. “Dapprima, le fibre sono state collocate su una lastra di acrilico tagliata al laser; poi, il tutto è stato messo su uno strato di silicone”, continua. “Per la densità e lo spessore delle fibre, le informazioni sono state rilevate dai dati catturati analizzando le curvature del corpo umano”.
Il risultato è a dir poco ipnotico. Mentre lo spettatore prova rabbia, le setole rispondono raddrizzandosi puntualmente come il pelo di un gatto quando si sente minacciato. Quando lo spettatore manifesta tristezza, le fibre cominciano ad abbassarsi accigliate e così via. “L’idea che sta alla base di questo progetto si è sviluppata intorno alla nozione di emozione e di mozione: in che modo è possibile progettare qualcosa che può rispondere ai cambiamenti emotivi nell’interazione sociale, quella sorta di armonia o di riflesso delle emozioni”, spiega Farahi.
Malgrado sia la prima a dire che “molta parte del lavoro che ho fatto sembra fantascienza”, Farahi aggiunge anche che “un giorno tutto ciò sarà normale. La giacca o il cappotto che indossiamo quotidianamente sarà dotato di macchine fotografiche incorporate, che non solo saranno in grado di individuare il nostro sesso e l’età, ma anche di capire dove si guarda, oppure l’abbigliamento sportivo sarà munito di sensori inseriti nel tessuto in grado di capire la postura e la velocità dei movimenti”.
“L’aspetto più emozionante”, continua, “è che il materiale sarà intelligente, attivo, configurabile e tutto ciò è molto entusiasmante per il futuro del mondo materiale computazionale nel quale vivremo”.
Farahi rimane concentrata sullo sforzo di spingere l’involucro di tutto ciò che è possibile, combinando architettura, design, moda, arte e tecnologie interattive nelle identità quotidiane, reimmaginando ciò che è e ciò che potrebbe essere. Va da sé, che ci incuriosisce vedere cosa si inventerà la prossima volta.